Culti Femminili e Grande Madre

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view post Posted on 26/10/2011, 18:23
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Nomade Figlio del Vento Stellare

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Culti Femminili e Grande Madre



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Il Culto delle Acque e la Dea acquatica nell'Italia Meridionale

Antropologia e Megalitismo in Liguria- Tra pietre e scivoli di fertilità

Le Antiche Madri nel Bacino del Mediterraneo: analisi comparata delle Sacre Nozze

Il Triskele come simbolo dell'unione del Dio e della Dea

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Il Culto delle Acque
e la Dea acquatica nell'Italia Meridionale



Il folklore italiano presenta spesso, nelle sue molteplici tradizioni e leggende, antichi retaggi culturali e rituali pagani assorbiti dalle usanze popolari, che però si ripresentano con forza nel tessuto popolare che ci circonda e che fanno capo alla dea dal volto bruno, la Mater che dona la vita e la morte.

Molteplici sono gli aspetti legati alla figura ctonia della dea della fecondità e tra questi di particolare rilievo appaiono quelli legati agli antri e al culto delle acque. Già dal VII sec. a.C. in moltissime grotte europee sono presenti i segni del culto delle pozze carsiche e delle sacre stalattiti o stalagmiti spesso ornate dai simboli della dea. Se l’antro rappresenta il metaforico ventre della divinità, la stalattite diventa l’elemento priapico, l’immagine “acheropita” del dio generato dalla stessa mater. L’acqua accumulandosi in piccole cavità lascia il suo contenuto di carbonato di calcio e genera quelle concrezioni calcaree che sembrerebbero materializzarsi nel ventre della sua sposa.

Elemento importantissimo del culto diventa così l’acqua e le sorgenti, il mistico liquido che microcosmicamente ricorda la misteriosa umidità del “sesso” femminile e i liquidi naturali secreti dalla donna, che avvolgono l’infante nel momento della sua nascita.

Sarà questa acqua carbonatica che, a causa del suo colore lattescente, assume nell’immaginario popolare le sembianze del latte della Mater e dà vita alla tradizione tutta italiana delle “pocce lattaie” o “latte di grotta”.

Ancora oggi, secondo le tradizioni contadine, l’acqua delle sorgenti o quella raccolta in piccole pozze carsiche ha notevoli poteri curativi il cui ricordo rimane ben saldo nelle culture contadine successive ove alla sacra “coppella” è sostituito il pozzo, simbolo religioso ma anche materiale dato che l’acqua in esso accumulata può garantire la sopravvivenza di una famiglia o del raccolto. Il culto del pozzo come luogo sacro è già testimoniato da ritrovamenti di ceramiche votive dell’Eneolitico e proseguirà successivamente,, infatti sarà da questi atavici ricordi che nasce nel Medioevo la valenza magica di questi luoghi tramandata ancora oggi nelle leggende popolari che narrano di “pozzi dei desideri” ove basterebbe lanciare una moneta per realizzare quello a cui si aspira fortemente.

Successivamente con l’avvento della religione cristiana questi antichi luoghi di culto vengono demonizzati, e quindi il pozzo diventa la via per accedere agli inferi o spesso legati a santi, alla Vergine,a Santa Verena o a Santa Brigida.

Un interessante esempio potrebbe essere la il St. Brigid's Well a Liscannor, la leggenda narra che la Santa giunse in questo luogo e raccogliendo a se tutti i pagani li battezzò con l’acqua della fonte ivi presente e ancora oggi il 1 Febbraio, data non casuale ma coincidente proprio con l’antica festa del fuoco di Imbolc. Si narra che l'acqua del pozzo abbia notevoli poteri taumaturgici e così si usa bagnare un pezzo di stoffa nella fonte e passarlo poi sul volto per guarire malattie agli occhi e successivamente appeso su di un albero, rituale che ricorda i culti arborei da sempre legati alla dea.

Altro luogo dedicato alla Madonna

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I Megaliti di Nardodipace; foto: A. Romanazzi

e alle miracolose acque è Chatres in Francia, sito sacro alle popolazioni celtiche e galliche che veneravano la dea madre all’interno di una grotta nelle vicinanze e utilizzavano le sacre acque ivi presenti per i loro rituali di fertilità.

Tradizioni legate al culto delle acque e della dea le troviamo diffuse in particolare nel sud Italia ove la tradizione della dea si è conservata per millenni nelle figure delle “masciare” le streghe-guaritrici che ancora fino ai primi del ‘900 operavano nelle campagne.

In Basilicata ancora oggi possiamo ritrovare nella toponomastica dei luoghi le tracce di un antico culto mai del tutto dimenticato, pensiamo a Melfi o al termine “Mofeta”, che riecheggiano il nome dell’antica divinità autoctona Meftis, dea della fertilità e prosperità e alla quale si raccomandavano le giovani spose partorienti, per arrivare al fiume Bradano, il cui nome nasconde nel “dan” il ricordo degli antichi popoli legati alla dea Dana, divinità che abbiamo incontrato anche nelle culture nordiche e che lega indissolubilmente popoli anche lontani tra loro come i Danai, i Dauni, gli Shardana, i Tuatha de Danann, i popoli autoctoni di quella zona dell’Europa dell’Est oggi vicina al Danubio e molti altri ancora.

Molto interessante è poi Matera, la “Mater Dea” che nasconde nel suo grembo di cunicoli, antri e anfratti i ricordi della dea e dove ancora oggi o ancora si venera il culto della Vergine Bruna, la venere “nigra sum sed formosa” che, sotto le sembianze della Madonna, nasconde atavici ricordi di un culto mai scomparso.

Un interessante centro è “Labrum” o meglio nota oggi come Lavello, “l’Abbeveratoio”, ove è stata portata alla luce una enorme acropoli nei pressi del cimitero cittadino e un tempio dedicato proprio a Mefite.

Moltissimi poi sono i ritrovamenti legati a questa antica divinità, in località Murgia Timone ad esempio, nei pressi di Matera sono presenti monumenti enigmatici non molto facili da spiegare se non nell’ottica del culto delle acque. Questi sono costituiti spesso da un doppio cerchio di pietre con al centro un foro che conduce nell’ipogeo, il ventre della dea segnato dal circolo femmineo esterno che indica la sacralità del luogo. Spesso questa entrata era ricoperta da cumuli di pietre e alcuni sono ancora visibili con una funzione che spesso è considerata oscura e che troppo facilmente si è definita sepolcrale. In realtà questi cumuli lapidei, spesso definiti “specchie”, avevano un ruolo importantissimo nel culto della dea delle acque, infatti per un semplice fenomeno di condensa la brina che si accumulava durante la notte tra le pietre condensava di giorno cadendo così nella camera sottostante, per il primitivo erano proprio questi massi a creare il liquido vitale, la dea che con il suo fresco umore garantisce la vita e la fertilità e dunque luoghi ove sicuramente si raccoglieva l’acqua per abluzione rituali e per garantire prosperità alle donne. Moltissime poi sono le cisterne e le coppelle sacre presenti nelle rocce e che servivano per la raccolta delle acque.

Nei pressi Vaglio e Macchia Rossano, scavi archeologici hanno portato alla luce templi costituiti da grossi massi sui quali erano intagliati dei canali che portavano in loco l’acqua delle sacre fonti presenti nella zona. Anche in questo caso le numerose iscrizioni ritrovate hanno permesso di attribuire il luogo al culto della dea Mefite, e successivamente a quello di Venere e della ninfa Oina, il cui ricordo ancora oggi si cela tra i ricordi di una festa patronale dedicata alla Madonna e ad una sorgente che si trova nelle vicinanze. Sicuramente questo luogo era dedito, oltre che al culto acquatico, alla pratica della prostituzione sacra tipica dei rituali della dea come testimoniato da alcune dediche a Venus Ercynia il cui rituale era legato alle sacre meretrici.

La stessa idea la ritroveremo poi in due dei centri più antichi dell’area di culto in Lucania, datati VI sec. a.C., Garaguso e Armento ove la presenza di antiche canalizzazioni riportano prepotentemente ai rituali acquatici e delle fonti.

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Statuine di Demetra presenti nel Museo di Vibo Valentia; foto A. Romanazzi

Per quanto riguarda il primo, presso alcune sorgenti del paese sono stati trovati diversi depositi votivi, uno in contrada Fontanelle, il cui nome appunto ci rammenta il legame con i culti acquatici, e un secondo, scoperto nel 1922, in località Filera.

Molto interessanti sono stati i rinvenimenti, statuette di divinità femminili in piedi o sedute, portatrici di frutta e fiori, la statuetta della dea accompagnata da un porcellino o meglio un cinghiale, animale totemico dei culti arborei e una focaccia su di un piccolo vassoio, offerte votive per chiedere fertilità alla dea. Altro interessante sito piuttosto simile a quello di studio è quello che si trova nel bosco di cupolicchio ad Albano di Lucania, qui sarebbero presenti massi erratici e rudimentali vasche ricche di pittogrammi e graffiti.

La tradizione dei santuari dell’acqua è presente anche in Calabria, testimoniata da antiche tradizioni ancora oggi celate nel folklore locale, e così che per conoscere e entrare nel mistico “circolo femmineo” dovremo seguire le orme della dea che ancora oggi riecheggia nella regione tra cupe rocce megalitiche e volti di brune vergini.

Una interessante scoperta che collega prepotentemente queste aree al culto delle acque e della mater è quella recentemente effettuata nelle campagne di Nardodipace in località Sambuco e successivamente nelle aree limitrofe dei territori comunali si Serra S.Bruno e Stilo. Qui sono state individuate strutture megalitiche datate V-III millennio a.C. sicuramente collegate al culto delle acque. In quelli che sono stati definiti dagli studiosi i siti “A” e “B” sono presenti strane strutture megalitiche e diverse coppelle rituali, anche di enormi dimensioni tanto da poterle assimilare a vasche che ci riportano ai culti precedentemente descritti.

Non si conosce ancora la reale funzione di questi templi megalitici ma sicuramente essi sono legati al culto della fertilità e alla “mater aqua” che fa se stessa immanente nella grotta, alla guardia di quel mistico liquido che assicura la vita.

Del resto il culto della dea Madre non è estraneo a queste terre come testimoniato dai templi dedicati a Persefone e Demetra presenti a Vibo Valentia e dove son state ritrovate moltissime sono le statuette votive raffiguranti la dea e il toro, i suo animale totemico.



Ma forse ancora più importanti sono le testimonianze lasciate nelle famose lamine d’oro ritrovate a Vibo che ci descrivono il culto di Demetra e delle sacre acque riecheggiando atavici ricordi mai del tutto scomparsi.

“…troverai a sinistra delle case di Ade una fonte ed accanto ad essa un bianco cipresso:

a questa fonte non avvicinarti neppure.

Ma ne troverai un’altra, fredda acqua che scorre dal lago Mnenosyne:

vi stanno innanzi custodi.

Dì “son figlia della terra e del cielo stellato, Urania è la mia stirpe e ciò sapete anche voi.

Di sete son arsa e vengo meno:

ma datemi presto la fredda acqua

che scorre dal lago Mnenosyne”.

Ed essi ti daranno da bere dalla fonte divina

E dopo d’allora con i sacri dei eroi sarai sovrana.

A Mnenosyne è sacro questo (testo):

per il mystes a quando sia sul punto di morire…

Bibliografia



AA.VV. Popoli Anellinici in Basilicata Napoli 1971

AA.VV. Il sacro e l’acqua. Culti indigeni in Basilicata, Roma 1998

J.Frazer: “Il Ramo d’Oro” Bolati-Boringhieri

.Romanazzi: “Guida alla Dea madre in Italia" Venexia Editrice, Roma, 2005

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Stregoneria, Tradizioni Popolari,
Vampirismo, Manifestazioni
Antropologia e Megalitismo in Liguria



Tra Pietre Sacre e Scivoli di Fertilità



La Liguria è una regione da sempre crocevia di popolazioni, sia autoctone che nomadi, caratterizzate da una grande venerazione per quella religione naturale espressa poi nel culto per quell’antica divinità protostorica chiamata comunemente Grande Madre. Un attento esame etimologico di molte aree presenti nella regione mette in evidenza lo stretto rapporto tra le diverse località e alcune antiche divinità femminili come Hola, Troza e Padellar. Se così esaminiamo molti toponimi locali ritroviamo una presenza quasi ossessiva del culto matriarcale, a sottolinearne l’estrema venerazione nell’area. La denominazione del monte Maremagna è facilmente riconducibile alla Mater Magna mentre la località Predallara di Arcola1 è strettamente legata al culto della divinità osco-umbra precedentemente menzionata. Le stesse Alpi Pennine, gli Appennini, i monti Penna e Pennino2 sarebbero dedicati alla dea Penn o Pennin, antica divinità celtica di origini transalpine, il cui culto fu cancellato dai romani che lo sostituirono, con un’operazione di sincretismo religioso, con quello di Giove, poi detto Pennino . Continuando il nostro excursus tra i toponimi della zona il monte Tellaro ricorda la dea Tellus3 , mentre le località Capri, Capria, Caprione, Caprignano sono strettamente legate all’antica dea umbra Cupra4, divinità ctonia legata a rituali di fecondità e al culto delle acque esportata dall’area umbro-abruzzese. E’ però nell’antro e nel culto delle acque che, attraverso credenze, ricordi, narrazioni, passaggi e sincretismi, ci sono state tramandate le antiche conoscenze.
Troviamo così traccia nel folklore locale di quella tradizione italiana delle “pocce lattaie” o “latte di grotta”, il liquido lattescente che, a causa dell’alto contenuto di carbonato di calcio, è estremamente simile al siero mammario femminile. Se dunque l’acqua macrocosmicamente è il sacro liquido della Mater che garantisce la fertilità, diventa di estrema importanza raccoglierla in piccole conche rituali che potremmo definire “Coppelle”. In moltissime aree neolitiche liguri sono state così ritrovate pietre con strane incisioni cuppelliformi o a forma di “U”, una rappresentazione schematica del toro, animale totemico della dea5, come sul Promontorio del Caprione, sul monte Beigua o a Monte Matto. Su quest’ultimo moltissimi sono stati i ritrovamenti di massi a forma di losanga6, geometria non casuale ma messa proprio in relazione all’organo genitale femminile, con sopra incise proprio delle piccole coppe, che sottolineerebbero l’idea esposta.
Se così la pietra rappresenta la figura femminile, l’incisione centrale è simbolo di prosperità, più essa è ricca dell’acqua che in essa si accumula e più è sacra e la coppella posta al centro della roccia indicherebbe così la “gravidanza” della mater.
Identici significati sacrali hanno i piccoli canali di scolo scavati nella roccia le cui funzioni, scarsamente pratiche, hanno un importante carattere rituale come dimostrato in moltissime altre parti di Italia come in Basilicata, e precisamente a Rossano del Vaglio o ad Armento i cui santuari erano legati alla locale dea Mefitis.
Un esempio ligure potrebbe essere il sito del “Rifugio di Sant’Anna” ove, sul tetto è incisa una grondaia, le cui scarse finalità pratiche sicuramente la collegano ai rituali precedentemente esposti7. Sempre nella zona, poi, molti sono le rocce che presentano incisioni cuppelliformi come su un masso di circa 20mq presente tra la sorgente e il corso d’acqua ivi presenti8. Anche il culto delle fonti sacre non è estraneo a questi luoghi. Ancora oggi, secondo le tradizioni popolari e contadine, l’acqua delle sorgenti o quella raccolta in piccole pozze carsiche ha notevoli poteri curativi tradizione che rimane ben salda anche quando alla sacra “coppella” viene sostituito il pozzo, simbolo religioso ma anche dagli importanti risvolti pratici dato che l’acqua in esso accumulata può garantire la sopravvivenza di una famiglia o del raccolto. Ed ecco che dobbiamo rifarci ad alcune tradizioni popolari, paradossalmente legate al Cristianesimo, per scoprire molti di questi sacri luoghi. Dopo le inutili proibizioni nel 452 con il Concilio di Nicea e successivamente nel 789 con quello di Tours, la Chiesa adottò la strategia di “assorbire”, con una vera e propria operazione di sincretismo, questi antichi rituali per poi legarli a figure cristiane come i Santi o la Vergine. Ecco che celate dal velo religioso traspaiono pratiche e usanza pagane. Fonti miracolose sono presenti in decine di Santuari spesso dedicati proprio alla “Madonna dell’Acqua Santa” il cui nome ci ricorda le sue antiche origini del culto. Sacre fonti le troviamo a Bergalla di Balestrino, ad Acquasanta, Casanova Lerrone e ad Alberga in provincia di Savona9, mentre Santuari dedicati a Nostra Signora dell’Acqua Santa sono presenti nella provincia di Imperia e precisamente a Montaldo e a Dolcetto10. Queste tradizioni sono ancor più presenti nell’area genovese, come testimonierebbe il Santuario “dell’Acquasanta” o la “fontana della Madonna” presente a Lumarzo11, la cui tradizione vuole legata ad una misteriosa apparizione della Vergine nel 1555. Sarebbe da ascriversi ad un periodo successivo, invece, l’apparizione mariana che ha dato vita al culto della “Acqua di Madonna” presente a Masone e a Valbrevenna. Il culto delle sacre acque non è l’unico nella regione ad essere strettamente legato ai rituali di fertilità e procreazione dell’Antica Mater, così questa ricerca continua tra sacri i betili. Molti sono nell’area ligure i menhir, come quello di Torre Bastìa, di Cian da Munga12, la pietrafitta di Triora, il dolmen di Verezzi, sul monte Caprazotta,o ancora la pietra di Marcello Dal Buono, per terminare con i beliti del Finalese, tutti nella provincia di Savona, o ancora il complesso di Val Bormida o il menhir Tramonti.
Altri strani siti sacri li troviamo sui Monti Branzi la cui etimologia riporterebbe al termine celtico bram, cioè pietra fallica13 o nell’area di Scornia a sua volta derivante dal termine skeir-na o luogo delle pietre. In provincia di La Spezia, poco dopo il paese di Biassa e precisamente al Valico di S.Antonio, vi è un menhir che sicuramente faceva parte di un gruppo più ampio, dato che un altro si trova abbattuto nelle immediate vicinanze insieme ad uno spezzone di un terzo ed un altro ancora si sarebbe trovato proprio sul valico e che risulta essere ora al museo cittadino o a quello di Pontremoli. Un altro allineamento litico doveva poi esser presente sul monte Beigua, in località “Le Faie”, nome che ci riporta a quelle mitiche figure dirette discendenti di antichi ricordi pagani. Qui è presente una pietrafitta resa piuttosto instabile dal tempo e dall’uomo, mentre la memoria contadina parla di numerosi altri menhir poi abbattuti dagli stessi agricoltori14. Un altro masso particolarmente interessante perché legato a quella cultura subalterna popolare è presente poi nel Santuario benedettino della Maddalena di Taggia, qui si trova una pietra orizzontale retta da due elementi verticali, alla stregua di un dolmen. La tradizione vuole che ci passassero sotto i bambini in una specie di rito rurale di passaggio15. Di particolare interesse, poi, sono le così dette pietre della fertilità, luoghi ove l’uomo cercava di propiziarsi la continuità della propria progenie con strani rituali apotropaici. L’idea era semplice, nell’immaginario popolare la pietra era considerata il priapos primordiale, l’elemento fallico maschile che, infisso nella terra, la rende fertile. In una visione microcosmica il primitivo immagina che, come il dio maschile rende fertile la terra attraverso la roccia, lo stesso poteva accadere per le donne del paese che, strisciando sopra questi sacri massi, si assicuravano la fertilità e la capacità procreativa16.
Da qui la tradizione degli scivoli di fertilità, pietre levigatissime che ancora oggi possiamo incontrare in molti comuni d’Italia ove era usanza lasciarsi appunto scivolare e dunque strisciare i proprio organi sessuali alla ricerca di fecondità. Il Liliu, parlando di simili tradizioni in Sardegna afferma che “cerimonie a sfondo magico e religioso dovevano effettuarsi presso i menhirs, gli dei di pietra al naturale…qui si celava lo spirito fecondatore. Questo come attestano elementi residui del follore sardo delle pietre, era assunto, magicamente, dalle vergini spose, scivolando nude, sul pilastro…o sfregandovi il ventre e il sesso o semplicemente arrampicandosi: era il sacrificio venereo al genio della pietra, perché il grembo femminile non negasse la prole”17. Esempi di questo tipo li troviamo a Plodio, in provincia di Savona e Borzoli, nei pressi di Genova ove ancora oggi si parla di antiche pratiche legate alla “Pria Scugiente”, una roccia di serpentino, conosciuta anche con il nome di “pietra lubraca”, ove le donne solevano strisciare per garantirsi un buon parto18. Anche se con un rituale del tutto differente non possiamo non nominare, poi, tra i siti legati ai rituali di fertilità, i circoli litici di Camporotondo, un recinto megalitico del diametro di 150 metri19 e quello presente nell’area della “Grotta delle Fate” da dove, attraverso una scala scavata nella roccia, si raggiunge questo sacro recinto proprio posto sulla verticale dell’antro20. Attorno a queste costruzioni sono state avanzate numerose ipotesi, ma non ne è stata ancora definita una esaustiva, potremmo così avanzare una idea che legherebbe appunto questi siti all’antico culto della Dea Madre. Il circolo litico, purtroppo oramai perso, poteva così essere utilizzato per rituali di fertilità, un enorme “cerchio”, disegnato da pietre infisse nel terreno, e un corridoio che ricorderebbe le vie della fertilità per raggiungere il circolare utero della dea, il sacro Nemeton reso verosimilmente fertile da un elemento fallico centrale, verosimilmente un menhir, come in un altro sito simile presente nell’area piemontese del monregalese.

1: Calzolari E., Baldassarri A., Misteri di Lunigiana, Quella Divina Lasagna, Luna Editore, La Spezia 1998
2: Romanazzi A., La Dea Madre e il culto Betilico, antiche conoscenze tra mito e folklore, 2002
3: Calzolari E., Op. Cit
4: Ibidem
5: Romanazzi A., Op. Cit.
6: Calzolari E., Baldassarri A., Misteri di Lunigiana, Quella Divina Lasagna, Luna Editore, La Spezia 1998
7: Corebò M., Prime indagini archeoastronomiche in Liguria, in Memorie, 1997
8: Michelini M., Corebò M., Un percorso rituale sulle pendici del Monte Beiua, 1997
9: Centini M. , I luoghi della Guarigione, Armenia, Milano 2003
10:Centini M., Op. Cit.
11: Ibidem.
12: Corebò M., Prime indagini archeoastronomiche in Liguria, in Memorie, 1997
13: Calzolari E., Gori D., Misteri di Lunigiana, la Farfalla Dorata, Luna Editore, La Spezia 2000
14: Michelini M., Corebò M., Un percorso rituale sulle pendici del Monte Beiua, 1997
15: Romanazzi A., Op. Cit.
16: Romanazzi A., Op. Cit.
17: Liliu G., La civiltà dei Sardi dal Neolitico all’età dei nuraghi, Eri Edizioni, Torino 1983
18: Copiatti F. , A. De Giuli, A. Priuli, Incisioni rupestri e megalitismo nel verbano cusio ossola, Grossi, Domodossola 2003
19: Borgonese A., I sentieri del Finale, Libreria Cento Fiori, Finale Ligure, 1984
20: Cordier U. , Guida ai luoghi misteriosi di Italia, Edizioni PIEMME, 1996


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Le Grandi Madri
nel bacino del mediterraneo



Analisi Comparata del Mito delle Sacre Nozze



La Dea Madre è stata probabilmente la prima divinità immaginata dall’uomo e, anche se così non fosse, è indubbiamente quella più presente in tutte le culture del mondo antico.



In tutto il Bacino del Mediterraneo, includendo anche l’area Mediorientale sono state ritrovate statuette, terracotte, incisioni, raffiguranti la Grande Dea già a partire da 30.000-25.000 anni prima di Cristo, usanza poi pian piano scomparsa verso il 3.000 a.C. con l’avvento delle popolazioni Indoeuropee veneratrici delle divinità maschili padrone delle armi e delle fucine.

Prima di questa “invasione” la rappresentazione della dea trova sua massima espressione nelle rappresentazioni delle Veneri Preistoriche, figure femminili dai prosperosi seni ricchi di latte, dagli abbondanti glutei e dai ventri smisurati e gravidi.



Se questa era l’immagine della Grande Generatrice dobbiamo capire da dove nasce il suo culto di fertilità e procreazione.

L’uomo dei primordi è fondamentalmente cacciatore e raccoglitore dunque la sua vita è strettamente correlata a quei cicli naturali per i quali da sempre ha mostrato interesse, conoscere i loro segreti non significa dominare la natura ma esserne parte integrante, entrare in perfetta sintonia con la Grande Madre e crescere prosperando con lei.

Il primitivo non è così un “unicum”, come invece il pensiero dell’uomo moderno porta a credere, che vive nella natura ma è parte della stessa e in essa, tra tabù e rituali, cerca e trova sostentamento e prosperità, felicità e dolore, vita e morte. Carichi di fascino così dovevano essere per lo spaurito uomo i segreti naturali che portavano allo sbocciare di un fiore, alla sua trasformazione in frutto, alla nascita di un animale, pargoli di una divinità immaginata come androgina, dalla quale e nella quale tutto nasce, cresce e muore.

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All’inizio è il bosco con i suoi frutti a dare sostentamento al primitivo che, proprio per questo, vede in esso e negli stessi animali che vi abitano una sorta di divinità immanente che lo governa, così il rapporto che l’uomo instaura con la natura non è quello di dominatore ma di creatura che vive nel suo divino, lo stesso animale non è solo preda e fonte di sostentamento, ma anche divinità e dunque sacro.

Egli così cerca e trova nella natura i segni della Grande Generatrice, la mater il cui ventre diventano, nell’immaginario primitivo, grotte e antri, ma assume anche le sembianze di animali, poi definiti “totemici” che altro non sono che la stessa dea che si materializza nella sua immanenza.



Successivamente nel Neolitico le popolazioni mediterranee, dedite alla caccia, entrano in contatto con popoli asiatico-orientali già agricoltori. Avviene così una grande trasformazione culturale, l’uomo non è più sottomesso alla natura, ma comincia a produrre frutti e ortaggi, il suo rapporto con la divinità non cambia, essa piano piano si sposta dai boschi ai campi, ma è sempre dipendente dai cicli naturali e dai rituali di fertilità che, mentre prima erano legati alla produzione spontanea, adesso vengono visti strettamente correlati all’agricoltura e al raccolto.



L’uomo inizia a esaminare con sempre più interesse i cicli naturali, l’andamento delle stagioni e i periodi in cui seminare per avere un buon raccolto. Intuisce che la terra non è sempre fertile, ma lo diventa solo quando è “ingravidata” da quello che poi sarà definito il principio maschile, il sole.

E’ in questo momento che al culto della Mater si affianca quello del suo Compagno e spesso anche Figlio perché generato dal ventre Universale della dea. Se dunque la dea è la madre terra che deve esser resa gravida in particolari periodi dell’anno, il suo Compagno sarà soggetto ad una serie di cicli di morte e rinascita che vanno proprio a rappresentare la nascita e la morte della natura.

L’idea del sacro accoppiamento come RITUALE APOTROPAICO che rende fertile e gravida la terra è però molto più antica dello stesso mito e la troviamo espressa nella PRIMITIVA IDEA delle SACRE GROTTE immagine delle profondità uterine della dea dove l’elemento maschile, il priapos universale, rappresentato dalla Sacra Stalagmite, è generato esso stesso nel metaforico ventre della dea, Esso è così sia Figlio (perché generato dalla dea) che suo Compagno (perché ne assicura la fertilità) e poi del SACRO BETILE, la roccia infissa nella bruna terra, l’elemento maschile che, come mistico priapos, la rende fertile.


LE SACRE NOZZE DELLA DEA: i rituali di Accoppiamento

Successivamente sarà il “ricordo” di queste antichi culti che ritroveremo, ben camuffati, nelle società e culture successive per dar vita a quello che oggi definiamo MITO.

Quello che adesso faremo sarà così un breve excursus alla ricerca delle tracce lasciate da questo antico culto di fertilità e prosperità nelle culture successive del Bacino del Mediterraneo.

In Mesopotamia nel III millennio a.C. erano venerati la dea Inanna ( successivamente Ishtar) e la sua unione con il Figlio-Compagno-Dio pastore Dumuzi (successivamente Tammuz).

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Il mito di Dumuzi richiama il raccolto che viene festeggiato dai popoli della Mesopotamia come fonte di vita e di fertilità. Essi, infatti, erano convinti che la natura rinascesse ogni anno attraverso un matrimonio sacro che era consumato tra le due divinità.

Il mito è racchiuso nel poema della discesa agli inferi di Inanna che ritroviamo nell’Epopea di Gilgamesh. Si narra che la dea fosse stata imprigionata negli inferi e la sua assenza provocava il blocco delle nascite sulla Terra. Intervengono così gli dea ma neppure loro possono violare una regola ferrea degli Inferi: ogni anima che torna in vita deve essere sostituita agli Inferi. Così Inanna offre in cambio del proprio rilascio il povero Dumuzi. Il dio non può sfuggire ma, ecco che appare la sorella Geshtinanna che intercede per il fratello ottenendo che venga trattenuto nel "mondo di sotto" solo sei mesi l'anno ed offrendosi di sostituirlo agli inferi per gli altri sei.

Secondo una visione che potremmo definire alla “Frazer” di “magia simpatica” questa unione era realmente celebrata tra una sacerdotessa d'Inanna, rappresentante la dea, ed il re della città, che assumeva le funzioni di Dumuzi in una tradizione che successivamente darà vita alla pratica della Prostituzione Sacra.

Il culto Inanna e Dumuzi poi lo ritroviamo nella Grecia Classica con il mito di Tammuz, il giovane eroe nato da una corteccia d’albero nella quale era stata trasformata sua madre Mirra e che, conteso da due dee, Afrodite e Persefone, fu ucciso da quest’ultima per gelosia, e successivamente nel mondo romano sotto il nome di Attis, lo “sposo” e compagno della dea Cibele che lo seguiva nelle sue spedizioni di caccia e del quale si innamorò perdutamente. Così il giorno delle nozze del fanciullo, la dea, vistasi defraudata del suo amore, fece impazzire tutti i partecipanti al banchetto, tra cui la sua bellissima moglie e così Attis, per disperazione, si evirò sotto un pino.

“…stimulatus ibi furenti rabie.vagus animi,devolsit ilei acuto sibi pondera silice…” (fuori di sé, in preda a rabbia furiosa, si recise il sesso)

Sarà così la stessa divinità che, avendo compassione del suo amato, lo trasformerà in un albero e indirà una festa funebre in suo onore. La ricorrenza che si teneva durante il giorno dell’equinozio e legata ai cicli riproduttivi di morte e rinascita della natura ove l’albero “adonico” altro non rappresenta che il simbolo fallico del dio, idea che ritroveremo anche in Egitto.

Se infatti ci rifacciamo al mito di Osiride, si narra che sulla cassa dove fu rinchiuso il dio, crebbe un albero di Melograno, poi, rappresentato dallo zed, antichissimo disegno per tradizione associato al suo culto, ma, in realtà, molto più antico, dato che si trova raffigurato anche in tombe del periodo predinastico, mentre il nome del dio non lo troviamo prima della V° dinastia. L'albero cresciuto sulla cassa costruita da Tifone e dunque un simbolo fallico di resurrezione, spesso rappresentato nei sarcofagi, proprio con il compito di riportare in “vita” il defunto.

In Egitto le funzioni vivificatrici erano esercitate da Hathor, la dea vacca con le “corna uterine” tra le quali sorge il sole, quasi ad identificare la dea dalla quale nascono e provengono tutte le cose e il cui nome significa proprio “Casa di Horus”.

“…Madre, colei che partorì il sole, che partorì prima d’ogni altra, prima ancora che fosse partorita…”

Nei primi miti è proprio la dea e madre di Horus e per questo, quando successivamente il dio sarà identificato come il figlio postumo di Osiride e Iside la dea sarà confusa con quest’ultima che acquisirà proprio da Hathor le sue rappresentazioni munite di corna di vacca. Sarà proprio in questa confusione che le sacre nozze saranno così successivamente associate a Iside e Osiride, divinità arborea morta e successivamente resuscitata proprio dalla Dea. Se torniamo alle prime scritture Hathor è però sia madre che compagna di Horus proprio in una visione simile a quelle precedentemente descritte. Horus non subisce una vera e propria morte, a differenza delle divinità precedenti, però perde un occhio grazie al quale può far rinascere il proprio padre Osiride, simbolo della vegetazione e dunque del ciclo naturale.

Come nel caso del culto precedentemente descritto di Inanna, anche in questo caso era il Faraone stesso ad accoppiarsi con la sua regale moglie ( la Hathor) e le sue sacre concubine (o sacerdotesse della dea). L’accoppiamento avveniva in quello che oggi definiremmo Harem, il luogo della sacra prostituzione derivante dalla parola araba Haram che significa sia sacro che proibito.

Nell’area siriaco-palestinese il culto della dea e del suo compagno è legato alle figure di Anat e del suo fratello-consorte Baal.

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La dea è spesso rappresentata da una vacca selvatica, animale totemico che ritroveremo in moltissime altre raffigurazioni della Grande Madre, sotto le quali sembianze, appunto, la divinità maschile si sarebbe accoppiata nel deserto.

La sacralità della vacca la troviamo anche in una tradizione sacra fenicia, secondo quello che ci riporta Tirio Porfirio, filosofo neoplatonico, verso la metà del III sec. A.C., un fenicio non avrebbe mai mangiato carne di vacca. Ovviamente la tradizione riportata è molto più recente del periodo esaminato ma è sicuramente una “traccia” della sacralità dell’animale.



Il ciclo mitologico è costituito da vari episodi non sempre coerenti, ( in molti casi Anat è prima sposa di El che, poi, diventa suo padre, e spesso confuso, come nel Vecchio Testamento, con Baal stesso. Dunque se Anat è Moglie del dio supremo da lei derivano tutte le cose così, oltre che sorella è anche madre di Baal.) connessi con culti della fertilità. Il dio Baal è così ucciso da Mot dio degli inferi, ma la sorella Anat lo ritrova e lo fa rivivere e con lui rinasce la natura, un mito molto simile a quelli esaminati in precedenza e a quelli che ancora esamineremo proprio a sottolineare la matrice comune di questi racconti.

Anche in questo mito la divinità maschile è legata al sacro albero. Un esempio sarebbe quello di EL, primo consorte di Anat e spesso confuso, anche perché i miti non sono ben definiti e presentano spesso, come già detto confusione, con BAAL.

Spesso il simbolo di El, il dio con le ali, è posto sopra il SACRO ALBERO, altro emblema di Asshur. In raffigurazioni più particolareggiate sopra lo stelo, a differenza della foto in questione, i fiori erano a volte sostituiti da melograni o coni di pino.



Inoltre la sacralità dell’albero visto come divinità la ritroviamo nei rituali di Primavera, durante i quali, ogni anno, veniva abbattuto un grande albero ( abbattimento=morte) e poi alzato nel sacro recinto per successivamente coprirlo di drappi e doni (un po’ il nostro albero del Maggio).

Un altro interessante mito è presente proprio qui in Italia, quello tra VIRBIO E DIANA, le cui tracce ritroviamo nello studio di Frazer sul Ramo d’Oro.



“…Sulle sponde settentrionali del lago [ di Nemi, N.d.A.] si erigeva il bosco sacro e il santuario di Diana Nemorensis, la Diana del Bosco…In questo bosco sacro cresceva un albero attorno a cui e probabile vedere, anche a notte inoltrata, una truce figura. Nella destra teneva una spada sguainata e si guardava continuamente d’attorno…Quest’uomo era un sacerdote e quando un nuovo individuo voleva occupare il suo posto per prendere il sacerdozio doveva uccidere il suo predecessore…non prima però di aver strappato un ramo dal succitato albero…La strana regola non ha alcun riscontro in tutta l’antichità classica e non si può spiegare per mezzo di essa…”



Queste le parole del noto antropologo James Frazer. Il mito ivi presente si rifà alla leggenda di Virbio, giovane cacciatore che trascorreva la vita nei boschi a caccia di belve, avendo come unica compagna la vergine cacciatrice Artemide. Fiero di quella divina compagna, egli disdegnava le donne e questa fu la sua rovina. Afrodite, offesa dalla sua indifferenza, fece innamorare di lui la matrigna Fedra; e quando il giovane respinse le turpi offerte della donna, lei lo accusò falsamente presso il padre Teseo, il quale credette alle menzogne di Fedra. Teseo si rivolse allora al proprio padre Poseidone perchè vendicasse l'immaginario affronto. Mentre Virbio guidava il suo carro lungo le rive del golfo Saronico, il dio del mare gli mandò contro un toro feroce scaturito dalle onde. I cavalli, terrorizzati, si impennarono scaraventando Ippolito giù dal carro e lo trascinarono nel loro galoppo uccidendolo. Ma Diana, che amava il giovane, convinse il medico Esculapio a riportarlo in vita. Il mito è del tutto simile a quello già citato di Adone, Virbio è senza alcun dubbio l’immagine del Dio-Compagno della Dea precedentemente incontrato, l’archetipo di quei re-sacerdoti descritti nell’opera di Frazer, la cui vita, sempre spezzata da morte violenta, era legata ad un albero.



Se la tradizione del re del bosco è vista nell’ottica dei miti delle “Sacre nozze” ecco spiegato il perché del legame del dio-sacerdote ad un albero e il suo dover perire di morte violenta.

L’elenco potrebbe continuare ancora con le divinità Hittite Hepatu e Teshub, o con la dea Ma e il figlio-compagno dio delle tempeste, venerata nell’area della Cappadocia e poi arrivata tramite i romani in Italia e alla quale verrà dedicato il culto di Ma o Mamede la cui tracce possiamo trovare ancora oggi nel folklore italiano.

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Divenuto infatti un santo cristiano con una vera e propria opera di sincretismo, il culto di San Mama lo troviamo ad esempio a Ca’ Campo, in provincia di Bergamo ove “la cappella è ufficialmente dedicata a San Pantaleone ma in realtà il culto popolare è tutto per san Mama, raffigurato come santo barbuto e con la palma del martirio, nella mano destra stringe una mammella.

Terminiamo il nostro viaggio tra la mitologia con la venere cretese, la dea dagli opulenti seni, associata a divinità maschili scarsamente importanti tanto da non avere un nome preciso come il dio delle asce bipenni di Creta o il toro bianco di Minosse.



La leggenda vuole infatti che Minosse, re dell’isola, chiedesse a Poseidone un bellissimo animale da immolargli. Il dio del mare mandò così al sovrano uno splendido toro bianco, ma l’avido re decise di tenerlo per se sacrificando alla divinità un altro animale, così, la divinità, colta da ira, fece infuriare la bestia che ingravidò Pasifae, la moglie del regnante, facendole procreare una creatura mostruosa. Al di là della veste classica del mito ritroviamo in esso l’accoppiamento della dea, rappresentata dalla regina e del dio raffigurato nel toro.

Proprio per capire meglio lo strettissimo legame tra il toro e la dea dobbiamo soffermarci di più su questo animale e sul suo simbolismo. Molti han pensato che l’associazione del toro o del bisonte con l’aspetto femminile sia dovuto al periodo di gestazione che per entrambi è nove mesi, in realtà Dorothy Cameron, in un suo lavoro, ipotizza l’associazione delle corna del toro con l’organo genitale femminile, le trombe di Falloppio, scoperte sicuramente dal primitivo durante operazioni di scarnificazione sui corpi dei morti.

Immaginiamo lo stupore del selvaggio quando, aprendo per la prima volta il ventre femminile, il “loco” dal quale proviene la vita, vede al suo interno un organo simile alle corna di un toro, e del resto questa “scoperta” la troviamo raffigurata in diversi vasi antropomorfi ove, rappresentante proprio all’altezza del bacino ci sono le corna taurine.

Ecco che il mito del Minotauro potrebbe esser considerato in questa nuova ottica, il labirinto altro non rappresenterebbe che l’utero della dea madre nel cui interno dimora il “toro universale”, l’organo genitale femminile che permette la vita e la procreazione.

Dopo questo breve excursus cerchiamo di tirare alcune ipotesi conclusive, soffermandoci su una analisi dei PUNTI COMUNI presenti in essi cercando di dare qualche spiegazione:

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Il Dio maschile è sia Compagno che Figlio della dea
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La dea assume spesso le sembianze o possiede gli attributi della vacca, suo animale totemico

Erodoto stesso ne “Le Storie” ci descrive come le donne di Babilonia almeno una volta nella vita dovevano prostituirsi nel tempio della dea come somma offerta alla divinità:

“…è d’obbligo che ogni dona del paese, una volta durante la vita, postasi nel recinto sacro di Afrodite [il nome con cui lo storico identifica Inanna o Isthar N.d.A.] si unisca con lo straniero…[…] quando una donna si asside in quel posto non torna più a casa se prima qualche straniero, dopo averle gettato del denaro alle ginocchia, non si sia congiunto a lei nel tempio…”

o come nel caso della prostituzione sacra dell’isola di Pafo che, secondo la leggenda, deriverebbe proprio dalle stesse sorelle di Adone che, fatta adirare la dea, furono condannate a darsi agli stranieri, e ancora in molte comunità dell’area cipriota ad esempio, una vergine, prima di potersi sposare e dunque “diventare donna” doveva prostituirsi ad uno straniero per denaro e poi offrire tali denari alla dea.

A Biblo invece, come riportato da Luciano, durante i giorni di lutto per la morte di Adone le donne dovevano tagliarsi i capelli e, se si fossero rifiutate, avrebbero dovuto concedere per un giorno intero i loro favori agli stranieri presenti e cedere i guadagni al tempio.

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Sicuramente quest’ultima tradizione è posteriore ai rituali di prostituzione precedentemente descritti, infatti l’offerta della capigliatura sarà una forma più mitigata della stessa. Il perché della capigliatura nasce dall’idea che essa era messa in relazione, nell’antichità, con la vegetazione palustre. Ed ecco ancora una nuova traccia, i capelli come vegetazione, il loro taglio come morte della generazione per propiziare la rinascita.

Nelle tradizioni ebraiche il ricordo di queste usanze è ancora molto forte, così, ad esempio solo le ragazze vergini possono andar in giro con il capo scoperto e una volta che esse si sposano devono rasare i capelli e sostituirli con una parrucca.



E’ da questa concezione che deriverà poi l’idea di Dote, infatti senza dote nessuna donna si poteva sposare, e per ottenerla, una povera fanciulla poteva solo offrire il proprio corpo per procacciarsela.



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Il dio subisce sempre un ciclo di morte e resurrezione in relazione con quello naturale e la sua novella vita è sempre legata alla dea
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Il dio è sempre legato all’elemento arboreo
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Per spiegare questi cicli dobbiamo fare delle osservazioni:Tra i fenomeni naturali non vi è uno come quello della morte e della resurrezione che più si avvicina alla sparizione e alla ricomparsa della VEGETAZIONE. L’idea del ciclo solare è scarsamente applicabile o comunque successiva perché, anche se esso subisce un indebolimento durante il periodo invernale non subisce una vera e propria morte, idea smentita ogni giorno dal suo risorgere. Il dio è così un dio vegetazionale, come poi sottolineato dal suo stretto legame con l’ALBERO. Se dunque ipotizziamo che la “comparsa” del Dio sia in qualche modo successiva all’Androgino e legata all’agricoltura, si potrebbe così pensare che alla base del ciclo di morte e resurrezione sia il ciclo naturale dei campi, con la loro semina, crescita e morte.

Anche la stessa morte, sempre violenta, del Dio potrebbe così essere messa in relazione con la VIOLENTA DISTRUZIONE da parte dell’UOMO dei prodotti dei campi, falciati, battuti e poi ridotti in polvere.



Qualunque possa però essere la visione interpretativa di questi PUNTI COMUNI, la loro esistenza in miti di culture anche molto lontane tra loro avvalorano l’ipotesi di un culto UNICO, diffuso in un periodo che potremmo definire “Età dell’Oro”, ove le divinità erano la Grande Dea Generatrice e il suo Sposo

fonte


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Il Triskele e la Sacra unione divina



di Andrea Romanazzi


Il simbolo del Triskele è forse uno dei più diffusi e conosciuti nel mondo pagano e celtico. Il termine deriverebbe da tri, ovvero “tre” e skelos, cioè “gambe”, descrizione perfetta della sua triplice forma.

Quali sono però le ataviche origini e i misteri che avvolgono tale simbolo? C’è una relazione tra questo segno, associato alla cultura nordica e le antiche religioni legate alla grande madre diffuse nel bacino del Mediterraneo? Esiste davvero una connessione tra i lontani siti dell’Isola di Man in Gran Bretagna e la Sicilia?

Da sempre l’immagine della Grande Dea è associata al culto acquatico, raffigurato, negli antichi e sacri antri, espressione ctonia dello stesso ventre gravido della Dea, con disegni geometrici caratterizzati da “motivi a rete”, di “linee parallele” o “Zig-Zag”. Questi segni, presenti già nel Neolitico su molte raffigurazioni ed incisioni rupestri, rappresenterebbero i rivoli d’acqua e la pioggia che rende fertile e gravida la dea secondo l’idea di una magia definita Simpatica o Imitativa, basata sul concetto che simile produce simile. L’antico tende a rappresentare nei luoghi sacri al culto delle acque, l’immagine dello stesso liquido per propiziare la sua presenza: quanto più sarà presente in loco, tanto più la dea sarà “gravida”.

Inoltre l’uomo, nelle vesti di grande osservatore, viene anche colpito dal moto vorticoso del liquido e dall’espressione della forza che esso nasconde, ecco così che la linea diviene prima cerchio e poi spirale, rappresentazione del moto dell’acqua, sia che esso scorra vivido e vitale, sia anche nelle sacre coppelle ove si accumula e nelle quali compie il suo vorticoso moto.

Esso è imovimento del mistico serpente simbolo della dea-ofide che conserva nelle sue spire il potere della vita e della morte.

Ecco così che tale simbolo veniva raffigurato su tumuli funerari o comunque in siti di sepolture perché, come molti altri legati all’antico culto della Dea, era espressione della rinascita e della vita.

Con questa accezione protettiva, il simbolo lo ritroviamo nella cultura Micenea, sulle monete della Licia, in molte steli del nord Africa ove forti erano state le influenze fenicie, ed in Anatolia da dove, attraverso i Galli che da tali regioni invasero e si stabilirono Galizia, arrivò nel monde celtico.

Si tratta dunque sicuramente di un antico simbolo religioso orientale, per alcuni di origine fenicia, ove era associato a Baal, Tale ipotesi si fonda su un ritrovamento effettuato in Tunisia, a Beja, l’antica Veda, di un cippo ove il triscele è proprio posto sopra il toro sacro di Baal (fig.1-2).


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Questa curiosa rappresentazione sembrerebbe, per un attimo, contraddire quanto sin ora detto sul suo legame con la dea. In realtà sarà un’ulteriore conferma del mistico suo significato.

Successivamente ritroviamo il Triskele in Sicilia, ovviamente ereditato dalla cultura greca. Per Plinio l’isolas venne associata a tale simbologia a causa della sua forma geografica triangolare, per cui detta anche Trinaclia.

Una particolarità del Triskele siciliano, che avvalora il suo legame con la dea è la presenza, al centro dello stesso, del volto di Medusa(fig.3).

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Ella è la bellissima e mortale Gorgone, figlia di Forco e di Ceto, che aveva il potere di trasformare in pietra gli uomini che guardavano il suo viso.

Appare in questa narrazione mitologica un riferimento al culto del betile, al litico priapo maschile cui il simbolo verrà successivamente connesso.

L’immagine della Medusa, nella simbologia sicula, è un riferimento alla protezione dell’isola da parte di Atena, ma anche qui i significanti sono molto più antichi e oscuri.

Infatti l’antico Androgino, unione della Dea e del Dio, era spesso raffigurato sotto forma di serpente, l’animale del mutamento che, con il suo cambiar forma e i suoi letarghi, è simbolo del continuo ciclo di morte e rinascita. L’animale è anche legato da una parte al simbolismo fallico maschile, e dall’altra al potere mestruale della donna e tracce di questo connubio, che farebbe del rettile ancor più espressione totemica della Dea Bianca, sono presenti nel folklore popolare mediterraneo ed europeo. Così, ad esempio, si credeva che il morso di una serpe fosse responsabile della prima mestruazione, o che le donne “nel ciclo” fossero particolarmente capaci di attrarre i serpenti e dunque non potevano andare nei campi, o ancora che in questi momenti dovessero stare attente a non esser ingravidate dall’animale.

Tra il 6500 e il 5500 a.C. molteplici sono le raffigurazioni di teste di serpi sono riprodotte sulle terracotte di tutta Europa e primigenie raffigurazioni di proto meduse zoomorfe le troviamo ancora ad esempio nella famosa grotta di Porto Badisco (fig.4) XE "Badisco" .

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Tra i fenici particolare importanza aveva la dea Gula XE "Gula, dea" , ed ancora l’antica incantatrix, la troviamo nel mondo celtico ove la tradizione vuole che il 13 Febbraio, la dea Brighit, sotto le sembianze di ofide, uscisse dal suo antro per controllare il tempo.

Sono gli antichi ricordi di un culto lunare ed ofidico di cui si sono per le tracce. Se però da quanto sin ora detto il Triskele è simbolo femminile, per altre culture esso è spesso associato al potere rigenerante del Dio maschile, e dunque un simbolo solare.

Abbiamo fin ora parlato della forma a spirale del simbolo, altrettanto importante è però il numero dei sui bracci:3. Infatti il Triskelion è appunto non una semplice spirale, ma l’unione di tre di esse intrecciate, in alcuni casi che divengono tre gambe umane.

Infatti il numero 3 rappresenta l’unione prolifica dell’elemento femminile, con quello maschile, è il numero della generazione, l’antico Khem egizio, materializzazione delle trascendenze divine, primo stadio della creazione.

Ecco che il simbolo inizia a dipanare il suo atavico significato. Alla dea dalle gambe divaricate, si unisce il priapico dio, alle acque vorticose provenienti dalle profondità uterine della stessa, si uniscono i bianchi liquidi seminali del dio. Tutto questo fa del triskele non un simbolo di una o dell’altra divinità, ma una espressione di unione, un simbolo di vita e rigenerazione, una commistione di sacri umori, maschili e femminili.

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Questa sarebbe così la spiegazione del suo accostamento da una parte alla dea, dall’altra al dio. Anche nella stele fenicia sopra indicata, il triskele appare generarsi tra il simbolo lunare e femminile e il dio vegetazionale dal fallo arboreo eretto (fig.5).

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Questa dunque l’intima essenza del triskele, i suoi più segreti significati, un simbolo acquatico ma anche solare, consacrato alla dea e al dio, geograficamente diffuso in ugual misura al Nord e al Sud del mondo, un simbolo di rinascita e di unione, di speranza e procreazione.

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